Che cosa fa lo sport per i diritti umani e contro il razzismo? Ancora troppo poco…
Se ne è parlato a Lecce nel corso di Conversazioni sul Futuro con Riccardo Cucchi, Vittorio Di Trapani e Luca Corsolini.
Nella Carta Olimpica, tra i principi fondamentali e i valori essenziali dell’Olimpismo, si parla esplicitamente di sport come di un diritto umano riconosciuto a ogni individuo e che tutti devono avere la possibilità di fare sport senza discriminazioni di alcun tipo e nel pieno rispetto dello spirito olimpico, che richiede comprensione reciproca, spirito di amicizia, solidarietà e fair play. E lo scopo dell’Olimpismo è quello di mettere lo sport al servizio dello sviluppo dell’umanità al fine di promuovere una società pacifica, interessata alla conservazione della dignità umana.
Non a caso proprio le Olimpiadi sono state spesso terreno fertile per la rivendicazione dei diritti umani. Trattandosi di una manifestazione che richiama l’attenzione di tutto il mondo, a volte gli atleti hanno colto l’occasione per portare davanti agli occhi di tutti temi importanti. L’esempio più eclatante è il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos, statunitensi che arrivarono primo e terzo nella finale dei 200 metri piani alle Olimpiadi in Messico nel 1968. Durante l’inno i due americani alzarono un pugno chiuso indossando guanti neri in segno di protesta per i diritti civili dei neri. Perché erano considerati sì dei campioni nel momento in cui vincevano, ma per tutta la vita avevano dovuto lottare. Quell’immagine è diventata un’icona, un simbolo della battaglia per i diritti civili degli americani. Peter Norman, l’australiano che arrivò secondo e aderì al loro gesto indossando una spilla dell’Olympic Project for Human Rights, fondato nel 1967 dal sociologo nero Harry Edwards.
Ma cosa successe dopo? Il Comitato Olimpico Internazionale chiese e ottenne l’esclusione di Smith e Carlos dal villaggio olimpico. Il CIO era presieduto da Avery Brundage, lo stesso uomo che nel 1936 si oppose al boicottaggio delle Olimpiadi nella Germania nazista. E quando tornarono in patria i due atleti ricevettero minacce e intimidazioni. Per fortuna per la comunità afroamericana furono degli eroi e ricevettero anche premi e riconoscimenti. Intanto anche Peter Norman fu “punito”, venne escluso dalle Olimpiadi del 1972, criticato dai media australiani e ricoperto di insulti, ma continuò a essere impegnato nel campo dei diritti civili e diventò insegnante. Di fatto Norman è stato il più grande velocista australiano di tutti i tempi, ma non fu nemmeno coinvolto nell’organizzazione delle Olimpiadi di Sydney 2000. Morì di infarto nel 2006, a 64 anni, e Smith e Carlos portarono la sua bara sulle spalle.
Questo episodio storico, raccontato nel film “Il Saluto”, di cui vi abbiamo parlato l’anno scorso, è stato uno dei punti di partenza di un incontro dal titolo “Sport, razzismo e diritti umani” che si è svolto a Lecce, nel corso del festival Conversazioni sul Futuro, a cui hanno partecipato i noti giornalisti Riccardo Cucchi, storica voce di Tutto il Calcio Minuto per Minuto, Vittorio Di Trapani, segretario dell’Usigrai (il sindacato dei giornalisti Rai), e Luca Corsolini, che è anche vicepresidente di Sport4Society.
Il gesto di Smith, Carlos e Norman, da una parte mette in evidenza come lo sport possa essere un mezzo per attirare l’attenzione su tematiche fondamentali della società civile, ma dall’altro dimostra anche come le istituzioni dello sport facciano davvero poco per promuovere e difendere i diritti umani e hanno spesso avuto reazioni repressive nei confronti di atleti che hanno approfittato del palcoscenico offerto dalle grandi manifestazioni sportive per farsi promotori di iniziative a sostegno dei diritti umani.
Finale di Champions League 2020 a Istanbul: sì o no?
Proprio in questi mesi le istituzioni sportive sono chiamate ad affrontare una decisione importante: lasciare o no che la finale di Champions League 2020 si svolga a Istanbul nonostante la crisi turco-siriana innescata proprio dalle indecenti decisioni del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan? Sebbene sulla carta tutti preferirebbero che un evento così importante si svolgesse altrove, quando concretamente si prova a immaginare cosa succederà non si può fare altro che pensare che resterà tutto com’è. Lo ha spiegato bene Riccardo Cucchi:
“Sul piano teorico sarebbe giusto spostare la finale, ma realisticamente sono abbastanza pessimista. Il calcio è una carta assorbente di tutto quello che c’è intorno. Non si può pensare al calcio come a un’isola felice, ma come uno specchio della società. Se la società non desse certi segnali, non assisteremmo a episodi come quello recente di Glasgow, dove i tifosi laziali che erano lì per la trasferta dei biancocelesti si sono permessi di fare il saluto romano per strada. È però altrettanto vero che il calcio non può assumersi le responsabilità che, invece, spetterebbero ai governi. Il calcio non deve rinunciare ai suoi valori di base, che sono l’amicizia e la lealtà sportiva, ma risente dei silenzi delle istituzioni. Sebbene i suoi valori siano portatori di positività, subisce comunque le decisioni della politica. La stessa FIFA è un organismo politico”
Tuttavia Cucchi ha anche sottolineato come spesso le società di calcio potrebbero fare qualcosa di concreto per difendere i diritti umani o per mostrare almeno un po’ di solidarietà, ma non lo fanno. Ha citato come esempio il fatto che la nazionale turca di recente abbia fatto il saluto militare per manifestare il proprio appoggio al Presidente Erdogan nell’attacco ai curdi nella zona Nord-Est della Siria, e tra di loro c’era anche il bianconero Demiral. Al vicepresidente della Juventus Pavel Nedved è stato chiesto se la società avrebbe preso qualche provvedimento, ma lui ha risposto che non c’era stata alcuna violazione dei loro codici.
Luca Corsolini ha sottolineato come gli sponsor abbiano un ruolo fondamentale nelle scelte degli organizzatori dei grandi eventi sportivi. Basti pensare al potere che, per esempio, ha Turkish Airlines, che sponsorizza e dà il nome all’Eurolega di basket (che infatti si chiama Turkish Airlines Euroleague Basketball). E restando sul basket, Corsolini ha ricordato quanto accaduto di recente al giocatore turco NBA Enes Kanter, che, poiché si oppone pubblicamente a Erdogan, ha ricevuto minacce e da cinque anni non può né vedere né parlare con la sua famiglia, ha il padre in prigione e i suoi fratelli e sorelle non possono trovare lavoro, il suo passaporto è stato revocato e contro di lui c’è un mandato di cattura internazionale.
Durante la discussione ci si è chiesti quale possa essere il ruolo degli atleti, se essi possano ribellarsi a certe scelte delle società cui appartengono o dei loro sponsor e la conclusione a cui si è arrivati, sostenuta da Riccardo Cucchi, è che per loro il discorso è un po’ più complicato, perché, proprio come abbiamo visto con l’esempio di Smith, Carlos e Norman, ma anche con quello di Kanter, la responsabilità degli atleti è grande, ma è molto grande anche il rischio.
Vittorio Di Trapani ha ricordato la morte di Sahar Khodayari, la ragazza iraniana definita “Blue Girl” per il colore ella sua squadra (l’Esteghlal), morta dandosi fuoco nel tribunale islamico per paura di essere incarcerata per sei mesi. Era stata arrestata perché, per poter vedere dal vivo la sua squadra, si travestiva da uomo per entrare allo stadio, visto che alle donne non era permesso. Ebbene, quando è morta Blue Girl la Roma ha colorato di blu il suo logo in segno di solidarietà. L’Usigrai ha chiesto a tutta la Serie A di fare qualcosa per ricordarla sui campi, ma in risposta ha ottenuto solo silenzi.
Di Trapani ha anche posto l’attenzione su un altro aspetto: si è tanto parlato del fatto che l’Arabia Saudita abbia finalmente aperto gli stadi alle donne, ma, ha detto, è solo un’arma di “distrazione di massa”, perché in pochi hanno fatto notare che le donne possono entrare solo in un piccolo spicchio di stadio, dunque sono ben lontane da avere gli stessi diritti degli uomini. Se ai più è sembrata una grande conquista è anche colpa della “dittatura della regia unica”, che fornisce un racconto parziale, di parte e sostanzialmente falso. In tanti hanno parlato di “libero accesso” allo stadio per le donne saudite, ma non è affatto così, continuano a essere discriminate.
Proprio la questione dell’Arabia Saudita porta l’attenzione su un altro evento importante, tutto italiano, ma che per cinque anni si deve svolgere lì: la Supercoppa Italiana.
Dalla Supercoppa in Arabia Saudita al Giro d’Italia in Ungheria
Perché la Supercoppa Italiana negli ultimi anni, si è disputata in Paesi come la Cina, il Qatar e l’Arabia Saudita? La risposta è semplicissima: per soldi. E i soldi hanno sempre la prevalenza su tematiche importanti come il sostegno alle battaglie per i diritti umani. Non è un caso che tutti questi Paesi siano sì ricchissimi di denaro, ma anche poverissimi da altri punti di vista, prima di tutto quello della difesa dei diritti civili. Sono Paesi in cui sussistono enormi differenze tra ricchi (anzi ricchissimissimi) e poveri (anzi poverissimissimi) e anche tra uomini e donne. Ma lo sport, quando ci sono i soldi di mezzo, se ne frega e preferisce accontentare i potenti e passare all’incasso.
Vittorio Di Trapani ha raccontato che l’Usigrai ha più volte sollecitato la questione della Supercoppa disputata in questi Paesi (e trasmessa proprio dalla Rai), ma la sua protesta non è mai stata presa in considerazione e in risposta, anche in questo caso, sono arrivati solo silenzi. Il segretario dell’Usigrai ha anche evidenziato come non solo il calcio, ma anche gli altri sport, tra cui il ciclismo, siano sempre più condizionati dai Paesi disposti a metterci tanti soldi anche se hanno una pessima reputazione. L’ultimo caso eclatante è quello del Giro d’Italia 2020, che partirà dall’Ungheria, un Paese che è sotto procedura d’infrazione da parte dell’Unione Europea per il comportamento assunto nei confronti dei migranti, che va dalla creazione di un muro per bloccarli fino al rifiuto di dar loro cibo mentre sono in attesa di rimpatrio.
Sempre nell’ambito del discorso “sport e soldi” rientra anche il fatto che i Mondiali di Calcio 2022 si svolgono in Qatar. E questo è un vero e proprio abominio. Non solo perché si giocherà tra novembre e dicembre, un periodo inusuale (per questioni climatiche), ma anche per tutto quello che c’è sotto. Riccardo Cucchi ha spiegato: “I Mondiali in Qatar sono costati molte vite umane. Manodopera proveniente dall’India e da altri Paesi poveri che è stata sfruttata fino alla morte per poter costruire stadi ultra-moderni. Sarà un Mondiale che calpesterà i morti“.
Razzismo negli stadi: in Italia il problema c’è ed è grave
Tutti i partecipanti al panel “Sport, razzismo e diritti umani” nel corso di Conversazioni sul Futuro si sono detti d’accordo che in Italia il problema del razzismo negli stadi c’è, ma spesso viene minimizzato dagli stessi dirigenti. Basti pensare alla clamorosa gaffe del presidente della Lazio Claudio Lotito, che ha detto che i “buu” allo stadio non sono atti discriminatori o razzisti, perché li fanno anche “a chi ha la pelle normale” e per lui “normale” significa bianca. E tra l’altro non è vero perché i giocatori caucasici al massimo rimediano fischi, non certo i “buu” o i versi da scimmia, che sono chiari esempi di razzismo.
Il Presidente della FIFA, Gianni Infantino, di recente ha ammesso che “in Italia la situazione del razzismo non è migliorata e questo è grave”, perché ogni volta che succede qualcosa ne parlano tutti, ma poi si tende a dimenticare. E anche in questo caso le società di calcio avrebbero gli strumenti per rimediare, ma spesso non gli applicano. Riccardo Cucchi, infatti, ha ricordato che dal 2017 c’è una norma che consente alle società di emanare DASPO (divieto di accedere a manifestazioni sportive) contri i propri tifosi autori di atti di razzismo dentro o fuori dal campo. La Roma, per esempio, lo ha fatto nei confronti del tifoso che sui social ha insultato Juan Jesus, ma sono casi ancora abbastanza rari. Cucchi ha spiegato anche:
“I cori razzisti sono abusivi nel mondo dello sport, un assassinio dei principi fondamentali dello sport. Il razzismo negli stadi è un fenomeno serio che deve essere affrontato dalle istituzioni del calcio e dalle società che non si possono più nascondere, perché ora hanno uno strumento concerto per prendere provvedimenti”
Sport, diritti umani e razzismo: gli esempi positivi
Per fortuna lo sport è pieno di esempi positivi, ma proprio perché abbiamo visto quanto poi il denaro influenzi i grandi eventi, è soprattutto a livello locale e amatoriale che si possono trovare le storie dai risvolti più positivi.
Il moderatore di “Sport, razzismo e diritti umani”, Gabriele De Giorgi (LeccePrima.it), ha raccontato la storia dello Spartak Lecce, una società sportiva fondata sui principi della salvaguardia dello sport e della sua funzione formativa e sociale, basata sui valori dell’unione, l’uguaglianza, l’antirazzismo e contraria a ogni forma di discriminazione. È una squadra nata come estensione del progetto Calcio Senza Confini, illustrato da Armando Pedone, presente a Conversazioni sul Futuro per raccontare i successi di questa iniziativa e gli sviluppi che ha avuto nel corso degli anni..
Calcio Senza Confini è nato con il fine di riqualificare degli spazi e promuovere l’aggregazione attraverso lo sport e lo Spartak Lecce è finanziato tramite l’azionariato popolare. Da questa iniziativa è inoltre nata la No Racism Cup, che esiste da dieci anni ed è un mondiale antirazzista di calcio a cinque, un torneo non competitivo che promuove lo sport come strumento per abbattere le frontiere e i pregiudizi.