Cronaca del fallimento di una Nazionale che ben ci rappresenta

Nazionale di calcio e fallimento

Si è gridato al mancato riscatto sociale, alle pesanti ripercussioni su un PIL già malandato, caricando come di consueto una partita di calcio di significati che vanno al di là del contesto sportivo. In una Repubblica fondata sul pallone, l’epilogo prematuro delle velleità mondiali azzurre non poteva che assumere i contorni di una tragedia degna di Euripide, ma recitata da maschere della commedia dell’arte.

Personaggi mediocri e attempati ai posti di comando, talento mortificato, la logica miope del profitto che prevale sulla programmazione: in questa mancata qualificazione sembrano esserci tutti gli ingredienti della storia archetipica italiana dei nostri tempi.

L‘aspirante timoniere Ventura, dopo una prima fase all’insegna dell’io speriamo che me la cavo, in cui si è limitato a scopiazzare gli schemi ereditati da Conte, ha attraversato il suo secondo anno di gestione delle risorse umane con lo sguardo a terra e la testa ciondolante di chi è in balìa degli eventi.

Eppure, (persino) agli occhi dell’osservatore profano, sembrava che sarebbe bastato far giocare ognuno nel proprio ruolo naturale per sfangarla anche questa volta e raggiungere il minimo sindacale della qualificazione. Niente di più. Il 4-3-3 praticato nei club dai vari Verratti, Jorginho, Insigne, El Shaarawy e Belotti sarebbe stato quasi lapalissiano per questa Nazionale. Ma il nostro cittì settantenne non se l’è sentita di accantonare le convinzioni di una vita in nome del mediano metodista. Ha preferito l’accanimento terapeutico su un modulo sbilanciato e anacronistico, così corrosivo da arrivare ad infettare anche l’Under 21.

I pochi giocatori di qualità a disposizione sono stati sacrificati sull’altare di una filosofia di gioco verticale e primitiva, un “palla lunga e pedalare” d’antan, privo di raziocinio e del più comune buonsenso. In questi due anni, Ventura non è riuscito a sdoganarsi dalla dimensione provinciale in cui ha speso un’intera carriera. Nel day after, a chi si aspettava una piena assunzione di responsabilità ed un gesto di dignità, il cittì risponde candidamente: “Il mio score è il migliore degli ultimi 40 anni. Ho perso solo due partite”. Una frase tragicomica, figlia di una cultura sportiva che si focalizza sul risultato immediato disinteressandosi del come, volta a racimolare punticini, che poi a fine anno si vedrà. Guarda il dito Ventura, perdendo di vista la luna pienissima di una debacle epocale. Nonostante lo score.

Nel gran rifiuto di De Rossi, chiamato dalla panchina per il riscaldamento, si condensa la cronica diffidenza italica nei confronti di chi dovrebbe amministrare, ma è semplicemente inadeguato. Jorginho, invece, rappresenta una meritocrazia che trova difficile applicazione nel nostro Paese. Cervello del marchingegno perfetto messo a punto da Sarri, per due anni non ha trovato spazio nei pensieri del cittì. Salvo poi essere gettato all’improvviso nella mischia, al momento dell’ultima, decisiva partita – con un colpo di scena di uno spaesato Ventura, uno, nessuno, centomila.

Insigne è il talento mortificato. La meglio gioventù che non trova spazio in un Paese per vecchi, vittima di logiche obsolete. Non è solo. In una Nazionale dal DNA operaio e difensivista, gli uomini di qualità e fantasia storicamente non hanno avuto vita facile. Dai problemi di coesistenza di Mazzola e Rivera a quelli di Totti e Del Piero, passando per i dolori del giovane Pirlo, fino alla convocazione per Francia ‘98 strappata in extremis da Roberto Baggio, a suon di miracoli e petizioni popolari.

Carlo Tavecchio e la teoria del complotto

Degno capomastro della compagnia di manovali azzurri è stato Carlo Tavecchio, prodotto di una classe di politicanti e amministratori improponibili e di una diffusa decadenza dei costumi, segnati da vent’anni di berlusconismo. Il numero uno della FIGC ha affrontato la tempesta perfetta annaspando alla disperata ricerca di un capro espiatorio: prima Ventura, poi Lippi – che non poté essere contrattato, ci riveleranno, perché nessuno in Federazione era a conoscenza della norma (federale) sul conflitto di interessi. Silenzio imbarazzato.

Messo alle strette, Tavecchio ha anche giocato la carta logora della teoria del complotto, che a queste latitudini torna sempre buona al momento di dover riconoscere i propri fallimenti. “Ho cambiato gli equilibri del calcio”, ha delirato durante l’ultima conferenza stampa da presidente della FIGC, forse con la convinzione di chi è abituato a pensare che le partite si vincano nei corridoi del Palazzo piuttosto che sulle zolle del campo. Aveva esordito con una gaffe razzista, Tavecchio, e se n’è andato difendendo ad oltranza la propria carica, arrendendosi solo davanti al grimaldello del CONI e di quella lega Lega Dilettanti che era stata una sua creatura per tanto tempo – tu quoque, Brute.

Il ciclo dei vinti azzurri, entrati nella Storia dalla parte sbagliata, si chiude così, fra i cocci di un movimento esanime e con il grottesco tentativo di nascondere sotto il tappeto un’inettitudine palese. A noi, che da sempre viviamo di panem et circenses, non resta che aspettare altri quattro anni. Quanto sarà dura…

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Si occupa di comunicazione nell'ambito della cooperazione internazionale. Pratica sport a livello sub-amatoriale. Aspirante CT, fautore della Garra Charrúa.
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