Giro E 2019: il racconto della nostra esperienza al Giro d’Italia in e-bike
Abbiamo partecipato all’undicesima tappa del Giro E ed ecco le riflessioni che ne sono scaturite
Con 2000 chilometri, una randonné da 200 km e alcune migliaia di metri di dislivello nelle gambe pensavo che il Giro E sarebbe stato una piacevole sgambata e, invece, la mia tappa è stata vissuta per metà sul sedile dei furgoni che mi hanno caricato in entrambe le prove speciali dopo una decina di chilometri corsi a tutta. Diciamo che sono salito a motore, ma non con quello che avrei dovuto: quello della sincronia fra le mie gambe e l’aiuto della tecnologia.
Per lanciare il Giro E RCS ha fatto le cose in grande: ogni giorno dieci squadre di sei ciclisti si affrontano in prove di regolarità su tratti della tappa dei professionisti. La regolarità consiste nell’affrontare le prove speciali a una media prestabilita dall’organizzazione senza l’ausilio di orologi e contachilometri.
La mia esperienza al Giro E 2019
Ho vestito la maglia di Milano Cortina 2026, insieme ad altri cinque compagni fra cui Daniela Ceccarelli, campionessa olimpica di Super G ai Giochi di Salt Lake City del 2002.
Ad Avigliana siamo stati accolti da un centinaio di persone. Prima della partenza ufficiale abbiamo fatto un giro ufficioso di un paio di chilometri scalando un impegnativo muro nel centro storico del comune del torinese. Ad accoglierci abbiamo trovato una folla di bambini festanti.
Poi, pronti via! I primi chilometri di pianura sono stati percorsi in scioltezza e a un buon ritmo, quando abbiamo abbordato le prime rampe del Colle del Lys (salita di cui conosco bene il versante nord e che avevo affrontato un paio di volte dal versante sud in passato) mi sono immediatamente staccato. Sui tornanti che portano da Almese a Rubiana ho visto allontanarsi sempre di più il gruppo e sono stato affiancato dall’ammiraglia della casa produttrice della mia e-bike di giornata: mi è stato consigliato di aumentare il ritmo di pedalata in modo da attivare una maggiore spinta del motore, ma l’aumento della cadenza non ha avuto l’esito sperato e sono finito fra gli automezzi della carovana al seguito della corsa.
A questo punto sono stato caricato sul furgone scopa e con questo sono arrivato fino al Gpm del Colle del Lys dove è iniziato un lungo trasferimento fino a Locana.
Qui, con la batteria della mia bicicletta ricaricata, sono ripartito riuscendo a stare in gruppo per una dozzina di chilometri, fino a Noasca. Anche stavolta, però, il ritmo si è fatto insostenibile e, come alcuni altri ciclisti, sono stato caricato sul furgone fino al Rifugio Muzio di Ceresole Reale dove è finita la prova per la maggior parte dei ciclisti, mentre i capitani delle squadre hanno proseguito fino al Lago Serrù. Se io e gli altri ciclisti non fossimo stati caricati sugli automezzi al seguito, la carovana sarebbe diventata troppo lunga con problemi di logistica e di sicurezza per la manifestazione.
La questione dell’agonismo con le e-bike
Che cosa ho capito dopo quest’esperienza? Innanzitutto che non è vero che su una bicicletta elettrica non si faccia fatica, anzi. Di fatica ne ho fatta parecchia, probabilmente più che se avessimo corso tutti quanti con una bicicletta tradizionale.
Ho dovuto adattarmi a un mezzo nato per assistere ciclisti che non hanno la possibilità di compiere determinati sforzi e l’ho dovuto fare in un contesto che ha imposto a tutti un ritmo da gara ciclistica. Poco importa che ci fosse una regolarità da rispettare, alcuni dilettanti e granfondisti presenti in gruppo e un ex professionista come Max Lelli hanno interpretato il secondo tratto come una gara di velocità imponendo un’andatura molto sostenuta che molti non sono stati in grado di seguire.
Come avevo già scritto in passato, se la bicicletta elettrica può diventare un ottimo mezzo per favorire un turismo più sostenibile e per togliere un po’ di emissioni dalle strade, dall’altra parte crea parecchia confusione se viene interpretata come un’evoluzione tecnologica dello sport del ciclismo o, peggio ancora, come un suo miglioramento.
Bisogna guardare in faccia la realtà e compiere una netta distinzione fra ciclismo ed e-cycling.
Mi sono confrontato con un compagno di squadra che va in bici 300 giorni l’anno e che mi ha confidato di avere circa 9000 chilometri annuali nelle gambe (a maggio!): anche lui si è dovuto arrendere a una bici elettrica poco performante ed è salito sul furgone dopo la salita della strada vecchia.
Non so dire che evoluzione avrà questo sport in futuro, ma, a mio giudizio, le variabili fisiologico-tecniche sono troppe perché l’e-cycling possa essere definito uno sport*.
Parlando con alcuni addetti ai lavori ho scoperto che il divario fra i vari modelli di biciclette è molto ampio e se, come nel mio caso, a un gap di preparazione atletica si somma anche un divario tecnologico, il combinato di fisiologia e spinta motoristica crea una differenza insostenibile.
È come se le diseguaglianze si sommassero: un ciclista mediocre su di un mezzo mediocre vede allontanarsi immediatamente il gruppo dei buoni ciclisti su buone e-bike. Non solo: un ottimo ciclista su una bici mediocre e un mediocre ciclista su un’ottima e-bike possono finire per equivalersi. Allora come faccio a misurare i meriti sportivi e la validità di un prodotto tecnologico?
Il binomio uomo-macchina, la posizione a metà strada fra uno sport che spinge i propri praticanti verso i limiti anaerobici e uno sport motoristico lascia dunque l’e-cycling in un territorio di difficile catalogazione.
La necessità di relativizzare
Se le aziende spingono in maniera decisiva verso le biciclette elettriche identificando in questo settore il business dei prossimi anni bisogna avere il coraggio di spiegare che, accanto a una nuova utenza che potrebbe scegliere di passare da mezzi alimentati da energie fossili a bici elettriche, ci saranno anche ciclisti che preferiranno la bici elettrica a quella tradizionale oppure ciclisti che inizieranno a pedalare direttamente su bici elettriche.
Se la bici elettrica toglie mezzi motorizzati dalle strade è una cosa buona, se, al contrario, lo fa con le biciclette tradizionali non lo è. Se un downhiller che in passato risaliva una montagna con un furgone per poi scendere a valle in mountain bike ora utilizza l’elettrica l’ambiente ci guadagna, ma il beneficio non c’è se prima l’ascesa era muscolare.
Ne avevo già scritto in passato col rischio di diventare impopolare ma è un dato di fatto: uno sviluppo delle elettriche che vada a sostituire le bici tradizionali non farà altro che aumentare le emissioni di CO2 nell’ambiente, i problemi connessi all’estrazione mineraria delle materie necessarie alla produzione delle batterie e quelli legati allo smaltimento delle stesse.
Andiamoci piano, dunque, con il celebrare le magnifiche sorti e progressive della bicicletta elettrica, cerchiamo di capire che il mezzo inventato nell’Ottocento ed evoluto nel corso dell’ultimo secolo e mezzo fino a produrre telai che pesano meno di un chilogrammo non è migliorabile con l’elettronica e con energie non muscolari.
Uno strumento che consente di spostarsi in pianura a una velocità di 15-35 km/h con la sola energia delle proprie gambe non è ulteriormente perfezionabile ed è il mezzo più egualitario e inclusivo possibile. Ogni tecnologia che interviene con energie artificiali su meccaniche alimentate da energie naturali non è un’evoluzione tecnologica, ma un’involuzione sapientemente venduta dal marketing come progresso.
* Per Treccani l’“attività intesa a sviluppare le capacità fisiche e insieme psichiche, e il complesso degli esercizi e delle manifestazioni, soprattutto agonistiche, in cui si realizza, praticati, nel rispetto di regole codificate da appositi enti, sia per spirito competitivo”.
Foto di Davide Mazzocco e Milano Cortina 2026