Gabriele Casella si racconta: “Il ring è un luogo di ascesa spirituale, non una fossa dei leoni”
Gabriele Casella lo scorso 23 giugno ha compiuto 24 anni, ma a sentirlo parlare sembra molto più maturo e forse proprio la sua maturità è uno dei segreti del suo successo sul ring. Campione del mondo W.A.K.O PRO (World Association of Kickboxing Organizations) nella categoria 85,1 kg nel 2016, iridato anche nella Muay Thai nel 2017, quando ha conquistato la cintura W.M.O., sabato scorso ha scritto un’altra splendida pagina della Kickboxing internazionale con la straordinaria vittoria conseguita nel Prestige Fight disputato nell’ambito di Bellator Roma contro il romeno Alex Negrea, di fronte a migliaia di persone che gremivano il Centrale del Foro Italico. Gabriele è detto “The Magnificent” proprio per questa sua capacità di vincere in diverse discipline e in diverse categorie di peso. Lo abbiamo intervistato per conoscerlo meglio e capire cosa c’è dietro un campione dalla carriera così brillante a il palmares già così prestigioso a soli 24 anni.
Ciao Gabriele, prima di tutto raccontaci qual è stata l’emozione nel vincere il Prestige Fight nell’ambito di Bellator Roma in un luogo come il Centrale del Foro Italico.
“Non una, ma due grandi emozioni. La prima per aver vinto in un circuito internazionale di professionisti degli sport da combattimento come Bellator, la cui partecipazione la devo a Carlo De Blasi. E la seconda per aver combattuto a Roma, la città che mi ha dato i natali, in un posto come la Centrale del Foro Italico, teatro di confronti agonistici memorabili (penso a quello tra Panatta e Borg) e luogo dei grandi concerti, penso a due artisti diversissimi che amo molto, Mannarino e Franco Battiato. Insomma un luogo non solo di sudore e adrenalina, ma anche di gioia e abbandono”
Parliamo anche dell’avversario Alex Negrea, che prima dell’incontro non aveva risparmiato frasi provocatorie nei tuoi confronti. Questo atteggiamento ha influito in qualche modo sulla tua prestazione o non ne hai proprio tenuto conto?
“No, non ne ho tenuto per niente conto. Certe licenze verbali fanno parte del gioco della comunicazione che gira intorno agli sport da combattimento, spesso alimentate dai manager che dovrebbero evitare di confezionare frasi sbagliate. Negrea, oltre a essere un validissimo atleta, è una bravissima persona. Io non amo partecipare alle recite che precedono il match. Il ring è un luogo di verità in cui si mette in opera la propria vita. Un altare su cui si fanno sacrifici senza troppe parole. Sono i risultati che contano. Quel che io penso è che bisogna dare un’idea nuova del nostro sport, costruire un nuovo immaginario svincolato dai luoghi comuni della società dello spettacolo del capitalismo in cui viviamo. Insomma il ring come luogo di ascesa spirituale e non come fossa dei leoni”
Tu sei riuscito a vincere in diverse classi di peso e anche in diverse discipline. Qual è il segreto e come hai cambiato allenamento nel corso degli anni?
“Sì, come ha insegnato il grande Mennea, i metodi di allenamento sono importantissimi per raggiungere certi risultati e devono essere continuamente variati in relazione alle proprie trasformazioni fisiche e psichiche. Spero di potermi dedicare di più alla didattica per trasmettere agli altri le tecniche che mi hanno consentito di trovare le formule per vincere su tanti diversi tavoli di gioco. Certe tecniche si trasmettono di persona in persona, non possono essere riassunte in formule astratte. Importantissimo per me è stato il lavoro con il mio maestro Paolo Liberati e con tutti i fighter con cui mi sono allenato, anche con tecniche non direttamente rientranti in quelle delle mie discipline. Mi vengono in mente a caso alcuni dei tanti che mi hanno accompagnato in questo cammino: Giovanni De Carolis, Michele Verginelli, Marvin Vettori, Alessio Di Chirico, Mattia Faraoni, i fratelli Anacoreta, Mauro Cerilli…”
Com’è la vita del fighter? Come si articola la tua giornata e qual è il sacrificio più grande che hai dovuto fare per praticare questo sport?
“Il vero combattimento di un fighter inizia molto prima del match e si ripete ogni giorno. Sacrifici su sacrifici, rinunce su rinunce. Attraversare il deserto. Molti mollano gli sport da combattimento non per la durezza del match ma per tutti i sacrifici che ci sono prima. Mesi e mesi di sacrifici si bruciano nell’arco di pochi minuti. Il più grande sacrificio comunque è quando devo rinunciare alle nuove birre artigianali che arrivano da tutto mondo nel locale dei miei fratelli ad Albano Laziale, Fustock! Scherzo. Per non essere melodrammatico. Comunque un lavoro non molto diverso da quello previsto per la formazione degli attori dai grandi maestri, da Stanislavskij e Copeau a Grotowski e Barba. I veri attori-uomini e non le marionette della marmellata televisiva”
Cosa diresti a un bambino per convincerlo a praticare il tuo sport?
“Molte bambine in Thailandia praticano la Muay Thai per sottrarsi al circuito dello sfruttamento, per riaffermare i propri diritti. Anche in Occidente, pur se in un diverso contesto di sfruttamento, possono valere le stesse ragioni. Ma ad un bambino direi: pratica questo sport per combattere i mostri delle tue favole, per salvare i più deboli, per far sì che l’uso della forza non sia solo monopolio dei potenti e dei prepotenti. Ci tengo a ricordare che gli sport più violenti non sono quelli da combattimento. Il gioco degli scacchi è, per esempio, uno degli sport più violenti per le energie psichiche che vengono scatenate. Non a caso i grandi giocatori di scacchi quando smettono di competere, non riuscendo più a canalizzare le energie psichiche liberate che quella disciplina, sviluppano gravi patologie mentali”
E tu come hai cominciato a combattere e perché? Hai praticato anche altri sport nella tua vita?
“Sì ho praticato il calcio, l’arrampicata, ma lo sport più importante della mia infanzia è stato l’hockey. Il passaggio agli sport da combattimento è avvenuto intorno ai 14 anni, per cercare me stesso in una disciplina che mi mettesse alla prova in situazioni estreme, al limite della sopravvivenza. Una lotta per la sopravvivenza in cui tutto dipende solo dalle tue forze, fisiche e psichiche. Andare ko, perdere la propria coscienza, e io non ci sono mai andato, è come morire. E vincere è come rinascere. Oggi siamo in un mondo liquido e angoscioso di maschere e burattini etero-diretti che ci deruba del significato delle esperienze autentiche ed estreme”
È vero che stai pensando a un progetto di formazione per attori? Perché proprio per gli attori?
“Non tanto perché nella Grecia antica le tragedie e le commedie venivano presentate in vere e proprie gare, con tanto di vincitori e di premi, non tanto perché nella Roma classica il pugilato e i ludi gladiatori prendevano il sopravvento sugli spettacoli drammatici, quanto per il ruolo che lo sport da combattimento può avere per la formazione di un attore che, come ha scritto Artaud, è soprattutto un atleta, atleta del cuore. Proprio negli sport da combattimento si apprendono le tecniche per superare la ripetizione della ‘rappresentazione’ ed entrare nel miracolo dell’’evento’, un’esperienza che qualunque fighter vive ogni volta che suona il gong del round. E questo lo avevano capito i grandi maestri del teatro. Il pugile Georges Carpentier, detto l’’uomo orchidea’ per l’eleganza della sua scherma boxistica, è stato un riferimento ideale anche per molti maestri di teatro e non solo per la sua eleganza. Lo sport da combattimento è uno yoga per l’attore, per il lavoro su se stessi come azione fisica e psichica”.